Le challenger bank in Italia stanno sperimentando nell’open banking, lasciando indietro le banche tradizionali che continuano ad adottare un approccio prudente e privo di una reale strategia di marketing
Da un lato, banche tradizionali prudenti, che offrono servizi già sdoganati e ampiamente testati. Dall’altro, audaci challenger bank che sfruttano i dati per dare credito più velocemente e con una nuova user experience. In mezzo, il fintech, che deve affinare le proprie conoscenze nell’industria bancaria. Sono questi gli attori dell’open banking in Italia, che si muovono a velocità diverse.
«Le banche italiane hanno adottato l’open banking con un approccio prudente – spiega Carlo Giugovaz, CEO di Supernovae Labs – dettato sia dalla necessità di recepire gli obblighi e gli standard previsti dalla PSD2, sia dalla volontà di valutare quali strategie di business e di servizi si sarebbero dimostrati di successo. Gli early adopter si sono quindi concentrati su un numero ridotto di servizi: pagamenti istantanei, aggregazione dei conti e le dashboard di PFM. All’estero, invece, banche e operatori fintech hanno puntato sull’open banking e raggiunto posizioni di leadership nell’embedded finance, nella creazione di ecosistemi open e nell’integrazione dei servizi bancari con l’e-commerce».
Trovare una nuova value proposition
Ciò che manca è una chiara strategia di marketing. Le banche sembrano puntare unicamente all’efficientamento dei processi. «Prendiamo il caso dell’aggregazione dei conti correnti e del PFM: al di là dei vantaggi offerti in termini di apertura del conto e del monitoraggio delle spese, quasi nessuna banca ha dato il via a strategie di marketing in grado di utilizzare le informazioni ricavate per costruire modelli di offerta e di servizio realmente open – sottolinea Giugovaz. In Italia, negli 12 ultimi mesi gli use case più interessanti provengono dalle Challenger Bank nate per il segmento SME. Queste nuove realtà, che sono nativamente “Open”, sono entrate nel mercato con modelli di “banca come piattaforma”. La distintività della loro offerta è nella tempestività dell’accesso al credito, nell’estrema semplificazione della user experience dei prodotti/servizi bancari e nell’offerta di servizi innovativi. Ai clienti vengono offerti processi di apertura quasi istantanei e una gamma semplice e chiara di servizi bancari e non, in collaborazione con fintech e terze parti. Un esempio di questa nuova value proposition è la neonata b-ilty, che si propone al mercato come piattaforma di servizi in abbonamento».
Sfruttare la tecnologia, anche fintech
Le banche devono quindi imparare a utilizzare l’enorme mole di dati di cui oggi dispongono. «Attraverso algoritmi di Intelligenza Artificiale e strumenti di analisi predittiva, le istituzioni finanziarie e le fintech sarebbero già oggi in grado di offrire servizi e prodotti realmente personalizzati sulle esigenze dei clienti e di proporli sui canali preferiti dalla clientela proprio “un secondo prima” che si rendano conto di avere quello specifico bisogno – commenta Giugovaz. Sempre nel mondo dei dati, ci sono fintech in grado di utilizzare i metadati dei clienti, raccolti analizzando la navigazione dei siti e delle app bancarie in area pubblica e privata, per supportare, tramite algoritmi di analisi comportamentale, nuovi modelli di segmentazione e clusterizzazione».
Nuovi casi d’uso: investimenti, assicurazioni, tokenizzazione
Un esempio di applicazione concreta riguarda l’arricchimento dei profili degli investitori ai fini MiFID o degli assicurati ai fini IDD, con informazioni che rientrano persino nella sfera dello stato emotivo dei clienti al momento della raccolta delle informazioni o nell’esecuzione di un ordine. «Un’ulteriore area che promette una grande attenzione nei prossimi due anni da parte delle banche italiane è quella della tokenizzazione di asset intangibili. Un esempio di applicazione in quest’ambito riguarda la creazione di nuove forme partecipative e il trasferimento di azioni e quote di società non quotate (SME in particolare), sia per favorire nuove forme di investimento per i risparmiatori sia per offrire nuovi strumenti di raccolta di capitali a sostegno della crescita aziendale – chiarisce Giugovaz. È un’area che presenta importanti complessità giuridiche e di compliance da risolvere ma che, con l’avvento della sandbox regolamentare di Consob, Bankit e Isvap, potrebbe rilevarsi di grandissima innovazione».
La collaborazione: le challenger sono più avanti
Ma la collaborazione tra finance e fintech/insurtech è un tema complesso. «Da un lato abbiamo le Challenger Bank e le Niche Bank più evolute. Nate intorno al concetto di piattaforma, queste realtà hanno costruito offerte e modelli di business sinergici e non in competizione con le fintech. Anzi, con loro condividono una parte dei processi e le informazioni raccolte, così da moltiplicare i touch point con i clienti, ridurre i costi di acquisizione e abilitare logiche di offerta instant – dichiara Giugovaz. Dall’altro abbiamo le banche tradizionali che, in gran parte, necessitano ancora di superare il gap “culturale e di competenze” nel dialogo con le fintech. Per queste realtà il problema principale non è tanto l’incontro con fintech e insurtech, ma la capacità di esprimere una visione innovativa del business, coerente col percorso di trasformazione della banca, e la capacità di selezionare partner strategici (non quelli usuali) che possano far evolvere il modello di business. Se si tiene conto che sul mercato sono presenti più di 25mila fintech, migliaia di ecosistemi e che la disponibilità di risorse con competenze specifiche (digital, fintech, e-commerce, etc.) nelle banche è ancora scarsa, si capisce la dimensione del problema».
Le competenze e il network
Le competenze fintech sono naturalmente necessarie. Ma non sempre presenti. «Se si escludono le Regtech, nate proprio per supportare gli istituti finanziari nell’adeguarsi agli incessanti cambiamenti apportati dai regolatori nazionali e sovranazionali, il tema della capacità di relazione delle fintech nei confronti delle banche è ancora spinoso. Nella maggior parte dei casi le fintech sono composte da giovani che hanno una conoscenza limitata e verticale dell’industria bancaria. Un caso di scuola è N26, che BaFin ha sanzionato per milioni di euro per il mancato rispetto della compliance prevista e che ha dovuto dotarsi di manager bancari per continuare ad operare. Le challenger bank si sono mosse per anni beneficiando di vuoti normativi o normative meno stringenti rispetto a quelle dei loro competitor tradizionali. Per questo motivo stanno recuperando inglobando nuove skills nel team e creando nuovi linguaggi per entrare in sintonia con le banche – conclude Giugovaz. Insomma, se da un lato c’è abbondanza sia di domanda che di offerta di fintech, di benefici e di opportunità, per poter realmente cogliere questi vantaggi occorrono competenze specifiche e network».
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di marzo 2022 di AziendaBanca ed è eccezionalmente disponibile gratuitamente anche sul sito web. Se vuoi ricevere AziendaBanca, puoi abbonarti nel nostro shop.