La finanza guarda con grande interesse al riarmo europeo: è un enorme business, con cifre da capogiro. I 32 paesi membri della NATO si sono infatti accordati per portare la spesa militare fino al 5% del PIL entro il 2035: il 3,5% per spese militari dirette e l’1,5% per infrastrutture critiche, preparazione civile, rafforzamento delle capacità industriali e innovazione.
Come segnalato nell’analisi “La difesa al centro dell’Europa” di Bain & Company, la spesa NATO passerà da 375 miliardi di euro a 635 miliardi nel giro di un decennio (ma altre stime riportano valori più alti). Intrecciandosi con le misure dell’Unione Europea, che sottraggono l’aumento delle spese militari nei prossimi anni al conteggio del Patto di Stabilità (Rearm EU) e sbloccano circa 500 miliardi di fondi europei, anche in forma di prestiti, per il riarmo.
Una prospettiva decennale che attira, inevitabilmente, l’interesse del mondo finanziario e bancario, perché con piani e numeri del genere è ovvio aspettarsi un periodo di crescita.
Ed è già abbastanza chiaro in quali settori conviene investire. Il mantra è “si vis pacem, para bellum” e quindi si punta sulla capacità di difendersi, il celebre “porcospino di acciaio”, considerata la migliore prevenzione contro un’aggressione. Si investirà quindi in primis su Aerospazio e Difesa: le notizie provenienti da Ucraina e Medio Oriente mostrano l’importanza di concentrarsi in primis sugli attacchi provenienti dal cielo e diretti contro la popolazione civile.
Ma ci raccontano anche dell’importanza di strumenti bellici a basso costo, in particolare i droni, inediti protagonisti dei recenti conflitti. Prevedibile anche l’interesse per satelliti, mezzi navali, veicoli blindati.
E poi componentistica, cybersecurity e tecnologie abilitanti a tutto tondo. Infine, ci sarà ovviamente spazio per l’intelligenza artificiale, per scopi sia difensivi sia offensivi. E serve una supply chain rapida e sicura: non può esserci spazio (o, almeno, non dovrebbe essercene) per la dipendenza da paesi terzi e non alleati.
Un’industria in grado di raccogliere questa sfida, però, l’Europa non ce l’ha. E questo aumenta ulteriormente gli spazi per investimenti e profitto: se due terzi della spesa militare andrà, inizialmente, verso gli Stati Uniti, la Commissione Europea vuole arrivare ad almeno il 50% di spesa interna all’Unione entro il 2030.
Un settore da rivedere
L’Europa dovrà, quindi, avviare un salto dimensionale, favorendo l’aggregazione tra aziende (anche grazie a una domanda più prevedibile) e la creazione di filiere nazionali. In Italia, in particolare, ci sono molte PMI nel settore: Bain ne ha considerate 96, escludendo i grandi gruppi internazionali e le loro controllate. 48 di loro hanno un EBITDA inferiore ai 5 milioni di euro mentre 22 superano la soglia dei 20 milioni.
Sono operatori specializzati, ma con una scala ancora ridotta. Il terreno perfetto per consolidamento industriale e investimenti mirati. E, infatti, l’attività del Private Equity in questo settore è cresciuta dal 2014, toccando un picco nel 2021: ma nonostante il recente calo, resta comunque al di sopra della media degli altri settori.
Lo studio di Bain & Company evidenza poi degli aspetti di governance. Appena il 18% dei programmi di acquisizione di sistemi e capacità dei paesi europei viene condotto in maniera congiunta.
Con un maggiore coordinamento si potrebbe arrivare al 35%. Superando la frammentazione della spesa tra i Paesi membri della UE, così come quella dell’offerta, si potrebbe favorire la nascita di grandi attori, capaci di generare economie di scala sia in produzione sia in R&D.
La giravolta ESG
L’industria finanziaria si è subito mossa per intercettare questo trend, con il lancio (o il rilancio) di diversi ETF tematici sul settore della “Difesa”: dopo anni di comunicazione incentrata sui principi ESG, questa parola suona certamente migliore di “armamenti”.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di settembre 2025 di AziendaBanca. Se vuoi ricevere AziendaBanca, puoi abbonarti nel nostro shop.