La blockchain e la DLT sono uscite dal centro dell’attenzione mediatica, ma non da quella delle aziende e del mercato.
«Se guardiamo ai numeri relativi alle criptovalute e agli investimenti in questa tecnologia – spiega Alessio Botta, Senior Partner di McKinsey & Company – vediamo che il 2021 è stato un anno di crescita; secondo una ricerca di Block, nel 2021 sono stati allocati alle società di criptovalute e tecnologia blockchain più di 25 miliardi di dollari, in aumento di oltre il 700% rispetto al 2020. Il raffreddamento del 2022 riguarda soprattutto la capitalizzazione di mercato delle criptovalute, che ha visto un crollo di quasi il 70% rispetto a novembre 2021. Dal nostro punto di vista però non si è registrato un minor interesse da parte delle aziende nelle applicazioni della blockchain».
La blockchain è in piena salute
L’inizio di un nuovo cripto-inverno per gli investitori, quindi, tocca solo marginalmente la tecnologia alla base del bitcoin e la sua declinazione “privata”, cioè la DLT.
«Questi temi, per certi versi ancora complessi, vengono talvolta sovrapposti – prosegue Botta – e il fatto che alcune criptovalute siano più speculative mettono in cattiva luce una tecnologia che non è affatto in difficoltà. Può essere usata bene o male, e questo le banche e le aziende incominciano a capirlo».
Più consapevolezza sugli usi
A livello internazionale e nazionale, ci sono progetti di ogni dimensione che confermano, piuttosto, che la blockchain sta diventando matura.
«Il che vuol dire che siamo arrivati alla consapevolezza che non è la soluzione per tutti i problemi – osserva Botta. Appena qualche anno fa, per ogni processo di natura distribuita si teorizzava di un’applicazione basata su blockchain. Oggi conosciamo meglio i vantaggi e gli svantaggi di questa tecnologia, che certamente offre programmabilità, trasparenza e sicurezza, ma ha anche elementi di complessità legati ad esempio alla scalabilità e ai costi di processing, oltre a mancare di normative e standard tecnologici condivisi».
L’esempio di JP Morgan
In altre parole: oggi sappiamo che ci sono situazioni in cui blockchain e DLT vincono sulle tecnologie precedenti, e altre in cui invece i loro vantaggi non compensano gli svantaggi. «Ad esempio, il progetto Onyx di JP Morgan– osserva Botta –riguarda uno use case di cui si è parlato per anni: rivedere il processo della banca corrispondente con una messaggistica non tradizionale, basata su DLT. Una grande banca globale ha investito in modo significativo su questa tecnologia, coinvolgendo finora circa quattrocento controparti in piattaforma».
Le CBDC sono raramente decentralizzate
Il fatto che diverse banche centrali stiano esplorando l’emissione di Central Bank Digital Currencies (CBDC), su database centralizzati, è un’altra indicazione di come sta cambiando la percezione di questa tecnologia, spiega Botta. «Il digital euro è ancora da definire nei dettagli – precisa – ma è altamente probabile che in qualche maniera faccia uso dell’infrastruttura di instant payment europea già esistente, mentre non è detto che farà uso della tecnologia blockchain. Anche il digital yuan cinese ha una architettura centralizzata, e altri Paesi potrebbero seguire lo stesso esempio, come il Brasile appoggiandosi a PIX. Tendenzialmente, la blockchain sembra essere più rilevante per transazioni complesse, quindi nel B2B e/o in contesti cross-border».
Attenzione all’effetto rete
A fare la differenza, per decretare il successo o meno di un progetto basato su blockchain/DLT, è la capacità di generare un effetto rete. «Quando un intero sistema, o la maggioranza di esso, migra su una piattaforma, allora c’è un effetto esponenziale – afferma Botta –, mentre in caso contrario si crea una sorta di isola digitale, separata dal resto. L’Italia è storicamente capace di fare squadra nell’innovazione, come dimostra SpuntaBanca. Ma questo non avviene in tutti i casi, e a livello cross-border si pone il problema di come conciliare standard diversi. Il trade finance, per esempio, è uno use case perfetto per la blockchain. Eppure a livello internazionale manca la standardizzazione di alcuni elementi, come un global legal identifier, un data model per le lettere di credito e uno standard ampiamente adottato per ordini di acquisto e fatture. Senza un linguaggio di business comune, neanche la migliore tecnologia può affermarsi».
Strumento rivoluzionario o asset class?
Se l’interesse per la blockchain come tecnologia non si è raffreddato, c’è un altro hype mediatico che rischia di creare confusione: quello degli NFT.
«In ambito B2B il concetto degli NFT è sempre esistito: chi fa un’applicazione di tipo enterprise spesso non bada al valore del token, ma al fatto che rappresenta una transazione in maniera univoca e sicura e può quindi essere utilizzato ad esempio come smart contract. Ora che gli NFT sono entrati nel mondo B2C, si sta ripetendo quello che è in parte già accaduto con le criptovalute: di fatto, è stata creata una nuova asset class con cui differenziare i portafogli. Una asset class, peraltro, molto volatile come ampiamente dimostrato dal mercato. Credo che sia il caso di interrogarci su che cosa vogliono essere sia le criptovalute sia i token non fungibili. Bitcoin nasce come un’alternativa alla moneta fiat a favore dell’inclusione finanziaria, ma ha avuto successo come asset class, non come strumento di pagamento. Allo stesso modo, gli NFT potrebbero rappresentare diverse tipologie di diritti su asset reali o virtuali, ma c’è il rischio di snaturarli, privandoli delle loro “missioni” per trasformarli in un altro strumento per differenziare il portafoglio di investimento».
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di luglio/agosto 2022 di AziendaBanca ed è eccezionalmente disponibile gratuitamente anche sul sito web. Se vuoi ricevere AziendaBanca, puoi abbonarti nel nostro shop.