#DEFINE BANKING

Il Private Growth Equity: l’asset class che investe nelle future aziende leader

Private Growth Equity investimenti nelle future aziende leader

Silvia Conti, country head per l’Italia di Baillie Gifford

Il Private Growth Equity è una asset class relativamente nuova ed emergente, complice una serie di fattori, tra cui la maggiore maturità delle aziende che scelgono di fare una IPO.

Questo concetto è meno famigliare rispetto al Private Equity e al Venture Capital, assai più conosciuti da chi si occupa di startup e idee innovative. Abbiamo approfondito il tema con Silvia Conti, country head per l’Italia di Baillie Gifford, in un episodio del nostro podcast #define banking, di cui questo articolo è un adattamento testuale.

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AG. Che cosa il Private Growth Equity e come si differenzia dal Private Equity che tutti conosciamo?

SC. Si tratta di una asset class da circa 5 trilioni di dollari che investe in aziende private in una fase di crescita abbastanza avanzata, che hanno di fatto dei ricavi solidi e un modello di business validato.

La principale differenza rispetto al PE tradizionale, che è tipicamente inteso come buyout, è nell’approccio all’investimento e nella strategia di creazione del valore.

Nel buyout, gli investitori prendono il controllo di un’azienda per spingere sull’efficienza, tagliare i costi, aumentare i margini e, spesso, usano anche una leva finanziaria.

Nel Private Growth Equity, invece, si entra di solito con una quota di minoranza, senza cercare il controllo dell’azienda. E i rendimenti vengono quasi tutti dalla crescita dei ricavi, non dall’ottimizzazione interna: si parla quindi tipicamente di Value Creation Bridge.

Nel deal di buyout, i ricavi crescono magari del 10%, ma sono i margini a espandersi molto e la leva fa il resto. Nel Growth, le aziende puntano a moltiplicare i ricavi di 5 o 10 volte in pochi anni, targetizzando ritorni a doppia cifra, fino anche al 60%.

In modo ancora più semplice: il Private Growth Equity è una scommessa sulla crescita, anziché sulla ristrutturazione dell’azienda.

AG. Questa asset class deve la sua ascesa a un momento particolare per le ex startup: che opportunità rappresenta per le aziende in crescita?

SC. Per le aziende in forte espansione, il private growth è diventato sempre più interessante grazie principalmente a dei cambiamenti strutturali nei capital markets. Oggi, le aziende restano private molto più a lungo. Nel 2014, l’età media delle società venture backed al momento della IPO era di 7 anni, mentre oggi è salita a 11 anni.

Si tratta di un vantaggio, in realtà. Se l’azienda resta privata più a lungo, può scegliere meglio i propri investitori e pensare a lungo termine senza le pressioni dei risultati trimestrali o dei mercati pubblici.

Come esempi, possiamo pensare a Databricks, che ha comprato MosaicML per oltre un miliardo di dollari. Oppure a SpaceX, che ha investito in StarLink invece di andare a monetizzare subito con dei pilot commerciali.

C’è anche un motivo più tecnico. Oggi i mercati pubblici non favoriscono più le IPO piccole oppure non profittevoli. Negli ultimi 10 anni, circa tre trilioni di dollari sono passati da fondi comuni attivi a degli ETF indicizzati Large Cap, riducendo quindi drasticamente l'interesse per le società giovani e non ancora redditizie.

E questo ha spostato il baricentro della crescita nel mercato privato, dove le aziende possono raccogliere capitale per continuare a scalare fino a raggiungere profittabilità o dimensioni sufficienti per entrare a fare parte degli indici stessi.

In estrema sintesi: il Private Growth Equity permette alle aziende emergenti di accedere a capitale paziente, proveniente da investitori che comprendono la creazione di valore nel lungo periodo, senza pressioni immediate sulla profittabilità o sulla guidance trimestrale.

AG. Nell’elenco di realtà in cui avete investito finora ci sono molti nomi importanti, specie in ambito tecnologico. Qual è il profilo medio delle aziende in cui andate a investire?

SC. Ci concentriamo su quello che noi definiamo un punto di inflessione della crescita delle aziende, cioè brand che hanno già validato il loro prodotto e generano dei ricavi importanti.

Solitamente, cerchiamo un fatturato minimo di 50 milioni di dollari l’anno, ma in realtà
in portafoglio abbiamo una cifra media di 200 milioni. Sono poi delle aziende vicine alla profittabilità e, soprattutto, con un piano di crescita ambizioso per i prossimi 10 anni.

Sono quindi aziende a cui serve capitale per accelerare e scalare la prossima fase della loro crescita. Leader di mercato, monopoli naturali, aziende con barriere all’ingresso forti, scala globale e vantaggi competitivi crescenti.

Infine, la maggior parte di queste aziende sono ancora guidate dai loro fondatori. I team di management non hanno bisogno di indicazioni su come gestire il business, ma cercano capitale a lungo termine per il percorso verso la quotazione.

Per fare qualche esempio, mi viene in mente Stripe, che sta crescendo del 30% l’anno ed è profittevole. Penso ancora a Databricks, che ha un vantaggio di AI estremamente chiaro rispetto ai competitor e sta crescendo a una velocità doppia. Nel 2024 abbiamo investito in un’azienda portoghese, Tekever, che opera nell’ambito dei droni autonomi per la sorveglianza ed è tra gli unicorni europei più recenti.

AG. È inevitabile confrontare quello che accade altrove con il nostro Paese. In Italia quante e quali opportunità vedete in termini di imprese appetibili?

SC. In Baillie Gifford abbiamo sempre ritenuto che l’Italia avesse una storia profonda per costruire aziende iconiche nel lusso. Penso a brand come Ferrari, Moncler, Prada, Brunello Cucinelli: titoli in cui investiamo con i nostri portafogli di public equities e chiari esempi di prodotti aspirazionali, ad alto margine e forte ritorno sul capitale.

Nel mondo Growth, siamo grandi sostenitori di Bending Spoons e abbiamo investito oltre 100 milioni dal 2023. Poche aziende sono riuscite a mantenere il loro ritmo di crescita in modo così sostenuto nel tempo e l’opportunità, per quanto ci riguarda, rimane ancora estremamente interessante. Crediamo che Luca (Luca Ferrari, Fondatore e CEO di Bending Spoons, ndr) e il suo team stiano costruendo innanzitutto un'azienda di classe mondiale che attrae i talenti e spirito di imprenditorialità in Italia.

E l’impatto va ben oltre, perché sta contribuendo a creare un ecosistema di talenti simile a quello emerso attorno a PayPal negli USA, che ha portato a spin out di ex dipendenti in aziende come LinkedIn, Palantir, YouTube e così via.

Detto questo, oggi ci sono poche startup italiane che rispondono ai nostri criteri di investimento minimo, quindi ricavi oltre i 50 milioni di dollari, crescita di almeno il 30% l’anno e valutazioni superiori a 500 milioni. Restiamo però attivi nel monitorare il mercato italiano e costruire delle relazioni locali.

AG. Anche l’interesse per il fintech è decisamente scemato. Qual è il vostro giudizio su questo settore, sia a livello internazionale sia in Italia?

SC. Il fintech ha attraversato delle fasi molto diverse. All’inizio degli anni 2020 era diventato quasi una bolla. L’idea era affascinante: servizi finanziari digitali, margini alti, costi bassi. Ma molte aziende non sono riuscite di fatto a raggiungere scala.

Oggi, dopo un periodo di selezione naturale, iniziamo a emergere i veri vincitori. Noi, recentemente, abbiamo investito in Revolut, che sta rapidamente diventando una banca digitale leader altamente profittevole e ha una chiara runway per scalare la propria piattaforma in Europa.

Nel nostro fondo più recente abbiamo investito in 7 fintech. Oltre a Revolut ci sono Altruist, una piattaforma per consulenti finanziari indipendenti; Bolttech, che si occupa di soluzioni insurance tech modulari; segnalo anche Human Interest, che opera nel campo delle pensioni digitali per PMI negli Stati Uniti.

In generale, l’Europa è un terreno estremamente fertile nel fintech, grazie alla domanda di soluzioni di pagamento transfrontaliere. Wise e Revolut sono due esempi chiari.

Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo valutato una opportunità ma, al momento, abbiamo scelto di non procedere.

AG. Mettiamoci nei panni dell’investitore. Perché il Private Growth Equity può essere una opzione interessante?

SC. Perché offre un mix estremamente raro. Da un lato, rendimenti potenzialmente asimmetrici, simili al venture capital; dall’altro, un profilo di rischio molto più contenuto rispetto agli investimenti early stage.

Ti fornisco alcun dati. Nell’early stage venture capital, circa due terzi degli investimenti restituiscono meno del capitale investito, mentre nel Private Growth Equity questo succede solo in un caso su quattro. Storicamente, il Private Growth ha sovraperformato sia il PE tradizionale sia i mercati pubblici.

Un altro aspetto interessante riguarda la Power Law, cioè la legge dei ritorni concentrati (pochi investimenti generano grandi ritorni, mentre gli altri vanno a pari o chiudono in perdita, portando comunque a un saldo molto positivo, NdR). Si applica anche nel caso del Private Growth Equity: aziende possono generare dei rendimenti straordinari, come è successo con Amazon, Tesla, Nvidia o altre.

Dal punto di vista della costruzione di un portafoglio, andare a escludere il Growth Equity dalla propria allocazione significa rinunciare alla possibilità di investire nei futuri leader di mercato globali: ci sono monopoli naturali con opportunità di crescita ancora significative, è difficile giustificare un portafoglio diversificato che non includa queste esposizioni.

Le migliori aziende, poi, non sono in vendita per il controllo: accettare partecipazioni di minoranza permette di accedere a delle opportunità che non hanno bisogno di interventi operativi esterni.

E poi c’è un altro aspetto, a cui accennato nell’introduzione: il Private Growth Equity è poco conosciuto e poco compreso. Questo si traduce in una minore concorrenza e in valutazioni più attraenti: un vantaggio per gli investitori informati e di lungo periodo.