
Favola o piaga? Nell’unanime narrazione pro startup crescono le voci contro che segnalano il pericolo di un eccessivo entusiasmo per gli “Unicorni”.
Che cosa è un unicorno
L’espressione unicorno indica una startup non quotata ma già valutata più di 1 miliardo di dollari. A definirli una piaga è Christian Schmitt, portofolio manager del fondo Ethna-Dynamisch di Ethenea. “Distorcono il mercato azionario, penalizzando i titoli value”, scrive Schmitt, che punta il dito contro un modello di business concentrato sulle vendite e disinteressato alla redditività.
Investimenti senza ritorno
Certo, in quanto gestore di un fondo Schmitt potrebbe sembrare di parte (ma chi non lo è?), ma sulla strategia di crescita molte osservazioni sono condivisibili. L’obiettivo primario è infatti aumentare le vendite, acquisendo in modo anche aggressivo quote di mercato. La redditività, un must per le aziende incumbent che, nel caso specifico del Finance, hanno superato non senza difficoltà gli anni della crisi finanziaria ed economica, per le startup alimentate dal venture capital non è una priorità. Il problema è: per quanto tempo gli investitori continueranno a finanziare una crescita che non genera profitti? E non c’è il rischio di uno “shock” quanto le startup si trovano a doversi fare giudicare dall’impietoso mercato?
Uber: 75 miliardi, 0 utile
Schmitt fa un esempio ottimo: Uber ha portato su scala mondiale una sfida alle compagnie di taxi (e in molti casi anche alla normativa che regola il trasporto pubblico e le licenze). La quotazione è arrivata a maggio 2019 per la cifretta di 75 miliardi di dollari, anche se all’interno della stessa azienda c’erano dei dubbi sulla possibilità che il business diventasse redditizio. Come si può competere con concorrenti che possono permettersi di restare in perdita?
Il caso Vice negli USA
D’altronde, oltreoceano c’è un certo dibattito sulla definizione stessa di unicorno. A lanciare il sasso nello stagno è stato Alex Sherman, con un articolo su cnbc.com, in cui segnalava il pericolo delle “valutazioni private” delle aziende. Nel mirino, la media company Vice, che in occasione di una recente operazione di acquisizione ha stimato il proprio valore (“sedicente”, si direbbe in una pagina di cronaca) in 3,6 miliardi di dollari. Lo stesso Sherman segnala che la Disney, che di Vice controlla il 27%, ha registrato in bilancio un valore della sua partecipazione pari a 0. Zero. Ripetiamolo ancora una volta: ZERO.
Il 27% dei sedicenti 3,6 miliardi di dollari vale zero.
È evidente che qualcosa non va.
Libertà di valutazione?
Chiunque può valutare liberamente il valore della propria azienda, della propria abitazione o della propria automobile: nessuno potrebbe impedirmi di mettere in vendita una Daewoo Matiz del 1999 a 9mila euro. Perché la valutazione privata di un’azienda diventi il sul effettivo valore, però, occorre che qualcuno sia disposto a metterceli, quei soldi: o acquistandola in toto (auguri) o con una IPO (augurissimi).
L’IPO non è per tutti
La fase dell’IPO non è proprio semplicissima, diciamocelo. Pensiamo alla quotazione di Snapchat o di altre realtà di grande successo, ma che non si capisce bene come guadagnino. O la superfuga last minute dalla quotazione di WeWork, rete di co-working che era stata valutata (si fa sempre per dire) nientemeno che 47 miliardi di dollari da SoftBank. E questo nonostante il fatturato annuale fosse di 2,6 miliardi e i competitor con giro d’affari analogo fossero, di fatto, valutati molto meno.
Una storia di successo porta all’acquisizione
E questo ci porta a riflettere sull’altra opzione: farsi acquisire. E a capire perché quella dell’unicorno spesso rischia di essere una favola. Se la quotazione non è percorribile, perché richiede trasparenza su costi, ricavi e sostenibilità nel tempo del modello di business, allora posso cercare la soluzione privata. In cui la mia “sedicente quotazione” può appoggiarsi su una narrativa vincente e imperante: in cui parlo di modello di business del futuro (il mio, ovviamente), di clienti del futuro e di altre tematiche da convegno sul futuro per convincere tutti che sì, l’ultima riga del bilancio ha il segno meno, ma tutto cambierà. In futuro.
Solo una coincidenza?
Su questo tema è interessante un tweet di tal Jeremy Liew, partner alla Lightspeed BVenture Partners, ripreso da diversi mezzi di informazione negli USA e non solo. Liew ha cinguettato malignamente sul fatto che il 31% delle aziende reintranti nel club globale degli unicorni ha una valutazione proprio di 1 miliardo. Cioè il minimo per fregiarsi del titolo di unicorno (la chiameremo infatti la “soglia del corno”). “Una coincidenza?” si chiede Liew.
Con il corno attiri talenti e investimenti
La soglia del corno fa, come abbiamo visto, la differenza per i fondatori delle startup. Non solo perché riconosce e premia il lavoro fatto. Ma anche perché sancisce l’ingresso nella Serie A delle startup: proseguendo la metafora calcistica, è proprio nella prima serie che vanno a giocare i migliori talenti e a cui arrivano i maggiori investimenti. Funziona anche al contrario: chi ha investito in una startup in fasce (e non ha mai visto un euro di ritorno) vede il raggiungimento della soglia del corno come una conferma importante della propria scelta. Il problema è che presto o tardi la narrazione del successo di questa o quella startup deve essere verificata. E solo il mercato può confermare che si tratta davvero di un unicorno e non di un cavallo con un corno attaccato. Che brutta favola sarebbe.