La riforma entrata in vigore lo scorso gennaio non porterà al decollo del microcredito in Italia. Come ci spiega Giampietro Pizzo, Presidente di RITMI, azzeccatissimo acronimo della Rete Italiana di Microfinanza, nell’ultimo decennio il microcredito italiano ha sostanzialmente disatteso le aspettative di crescita.
Nel 2022, secondo i dati del report “Inclusione Finanziaria e Microcredito” frutto di una collaborazione tripartita tra Banca Etica, c.borgomeo&co. e RITMI, ha erogato quasi 214 milioni di euro a circa 15.600 beneficiari. Restando lontano da un mercato potenziale che la stessa RITMI stima in circa 2 miliardi, cioè 10 volte di più.
Manca una visione di insieme
«I problemi del microcredito sono diversi e l’ultima riforma, di fatto, non li affronta: la domanda esiste – elenca Pizzo – ma mancano un mercato e strumenti per permettere agli operatori di crescere e fare ricavi.
Non c’è una politica del microcredito, costruita coinvolgendo gli operatori. Oggi l’offerta è ancora frammentata e spesso non specializzata.
La riforma, poi, non ha affrontato il tema degli strumenti di provvista, che limitano lo sviluppo degli imprenditori. Ci si è praticamente dimenticati del microcredito sociale».
Servono operatori di qualità
Una lunga lista di questioni interconnesse tra loro. Iniziamo dalla questione dimensionale e dai numeri del Report, che aggregano realtà e situazioni molto differenti.
Comprendono, infatti, anche i progetti a durata programmata varati da alcuni soggetti del Terzo settore o da istituzioni pubbliche: attività temporanee e non strutturate.
«Le realtà “professioniste” – osserva Pizzo –, che rispondono cioè ai criteri di legge come operatori del 111 TUB, sono tutto sommato poche: una dozzina, quelle iscritte al Registro di Banca d’Italia.
Solo presso di esse troviamo adeguate competenze di gestione del rischio di credito e un ecosistema per fornire i cosiddetti servizi ausiliari, obbligatori per legge in caso di microcredito. E quindi educazione finanziaria, coaching, monitoraggio, accompagnamento nella preparazione del business plan: tutto ciò che serve al microfinanziato per non fallire».
Competenze e credito
Questi percorsi di accompagnamento e sviluppo del capitale sociale sono fondamentali nel microcredito, come confermano tutte le esperienze internazionali.
«Se non so chi è il finanziato e non sono in grado di valutarlo – spiega Pizzo – allora non posso capirne la capacità di portare a buon fine quel finanziamento.
La legge del 2010, così come i decreti attuativi del 2014, prevedono giustamente che questi servizi accessori siano obbligatori. Ma, per gli operatori, queste attività sono complesse e costose da organizzare, in assenza di un sistema territoriale, magari basato su fondi pubblici.
Un caso esemplare è quello di immigrati e rifugiati: in questo caso sarebbero utilissimi dei percorsi di educazione linguistica, finanziaria e professionale collegati a un microfinanziamento. Eppure in Italia appena il 2% dei beneficiari di microcredito è straniero».
Unico limite per il microcredito di impresa: il numero di addetti
La Riforma appena entrata in vigore, poi, ha ampliato la platea di potenziali beneficiari e la somma erogabile, correndo il rischio in alcuni casi di sovrapporsi all’attività bancaria.
«Nel 2014 era stato individuato un perimetro troppo ristretto di soggetti finanziabili col microcredito di impresa – racconta Pizzo –, riservato a neoimprese con meno di 5 anni di vita e fatturato massimo di 200mila euro. In pratica, nanoimprese.
Adesso siamo all’estremo opposto: l’unico vincolo è il numero di addetti dell’azienda, 10 al massimo. Nessun limite di fatturato.
Anche l’importo massimo erogabile è aumentato: dai 25mila euro precedenti, già passati a 40mila, più i 10mila euro con il Cura Italia, siamo arrivati a 75mila.
Con la possibilità di arrivare a 100mila euro per le Srl».
Ripensare le modalità di provvista
I massimali più alti si scontrano, però, con le opzioni di provvista che, per il microcredito, sono limitate al finanziamento bancario, al capitale proprio o all’emissione di titoli.
«In Italia è difficile trovare capitali pazienti – illustra Pizzo – mentre per le linee di finanziamento bancarie c’è il limite del Fondo Centrale di Garanzia, utilizzabile fino a un massimo di 5 milioni.
Servirebbero misure pubbliche per le linee di credito, oppure nuove regole per i fondi di garanzia. La cessione del portafoglio non è, invece, un’opzione valida per uno strumento di questa natura».
Le banche stanno quasi a guardare
C’è poi un altro grande assente nel microcredito italiano: le banche.
Nonostante la scelta di inserire questo strumento nel TUB, quindi nella legislazione bancaria, «gli istituti tradizionali hanno sempre visto il microcredito alla stregua di uno strumento da CSR – afferma Pizzo.
Molte banche hanno esperienze in questo campo, ma in logica di singolo progetto e non di attività continuativa: solo BNL BNP Paribas, tra le grandi banche, ha avviato una collaborazione con PerMicro.
A livello di settore, non si è ancora aperto un dibattito serio sul suo ruolo in una strategia bancaria più ampia, di inclusione sociale, ad esempio, dei migranti, dei giovani o di chi vive in aree economicamente depresse».
L’occasione persa del microcredito sociale
Manca, infine, il microcredito sociale.
«La riforma ha modificato il microcredito di impresa – conclude Pizzo – dimenticandosi di uno strumento che potrebbe essere fondamentale per affrontare l’attuale emergenza sociale.
Ci sono persone che hanno difficoltà a sostenere una spesa imprevista o eccessiva, in caso ad esempio di malattia o di perdita, anche temporanea, del posto di lavoro.
Il microcredito sociale potrebbe aiutare a combattere il sovraindebitamento, procedendo in parallelo con quello di impresa».
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di aprile 2024 di AziendaBanca ed è eccezionalmente disponibile gratuitamente anche sul sito web. Se vuoi ricevere AziendaBanca, puoi abbonarti nel nostro shop.