Durante l’estate i mercati sono rimasti relativamente stabili, anche se in alcuni segmenti delle materie prime si è percepita una crescente tensione. Per gli operatori economici – e in particolare per le PMI con forte esposizione internazionale – la vera priorità è anticipare gli scenari dei prossimi mesi.
Per le Small and Medium Multinationals (SMMs), ossia le imprese di piccola e media dimensione che operano oltre confine, due variabili sono monitorate con particolare attenzione: l’andamento dei tassi di cambio e l’evoluzione dei costi di produzione.
Sul fronte inflazione, si sta delineando un fenomeno inedito: una divergenza tra le aree di produzione a livello globale. Normalmente, nelle fasi cicliche inflazionistiche, l’impatto è generalizzato, pur con intensità diverse a seconda della regione. In genere, nei periodi di inflazione diffusa, le economie avanzate subiscono variazioni più moderate, mentre i mercati emergenti registrano incrementi più marcati.
Oggi, invece, lo scenario è radicalmente diverso. I dati sull’Indice dei Prezzi alla Produzione (PPI) – tra i più significativi in ottica business – mostrano divari notevoli: negli Stati Uniti l’inflazione alla produzione viaggia al +3,30% su base annua, mentre in India (-0,58%) e in Cina (-3,6%) prevale una dinamica deflattiva.
L’Unione Europea si colloca a metà strada, con un incremento contenuto dello 0,6% negli ultimi dodici mesi. È vero che le metodologie di calcolo differiscono da Paese a Paese, ma il trend è inequivocabile.
Negli Stati Uniti, l’inflazione alla produzione ha diverse cause: la resilienza dell’economia americana, gli effetti collaterali dei dazi e la solidità del mercato del lavoro. Tuttavia, per le imprese, ciò che conta non sono tanto le cause quanto le conseguenze.
La prima implicazione è il ritorno della Cina come hub manifatturiero di riferimento a livello globale. Si moltiplicano i segnali deboli: dopo una fase di incertezza, Pechino si sta riaffermando come polo produttivo strategico, grazie a una pressione sui prezzi senza precedenti e a una gestione efficace della guerra commerciale avviata dall’amministrazione Trump.
Questa rinnovata competitività asiatica sta ostacolando la reindustrializzazione dell’Europa e mette in discussione le ambizioni statunitensi.
In un’ottica più ampia, la rapidità con cui i mercati possono guadagnare o perdere competitività impone una revisione costante delle catene del valore. All’interno delle imprese, le scelte strategiche non si limitano più al breve periodo: l’identificazione di aree produttive alternative è ormai una prassi consolidata, sia per garantire i costi più bassi sia per tutelarsi da rischi doganali e geopolitici.
In parallelo, i CEO e i CFO delle PMI internazionalizzate stanno facendo leva su un ulteriore strumento: la gestione attiva del rischio di cambio per proteggere i margini.
La forte volatilità valutaria degli ultimi mesi – in particolare del dollaro – sta infatti spingendo le aziende a rivedere le proprie strategie. Un’analisi condotta su oltre 10 miliardi di euro di transazioni nel primo semestre mostra un calo di quasi 5 punti percentuali nei pagamenti in dollari, mentre le operazioni in valute locali hanno raggiunto il 20%. Le imprese stanno quindi adottando diverse strategie per proteggersi dal rischio cambio, diversificando le divise utilizzate e recuperando preziosi punti di margine.
Oggi mantenere lo status quo non è più un’opzione: per i CFO e i leader delle PMI, la salvaguardia della redditività passa da un approccio dinamico e consapevole a cambiamenti strutturali nei modelli operativi e finanziari.