I venture capitalist italiani sono più prudenti dei colleghi statunitensi o europei.
Questo uno dei dati emersi da un sondaggio sulle prassi del venture capital europeo condotto da diverse università del Vecchio Continente, tra cui anche il Politecnico di Milano.
In Italia vince la prudenza
Secondo lo studio, i venture capitalist italiani concedono finanziamenti valutando quasi esclusivamente la storia – di successo – dell’imprenditore e poco o nulla sul prodotto, la tecnologia o il mercato che vengono loro proposti.
«Anche in Europa si considera l’imprenditore, il joker, più dell’horse, il cavallo, rappresentato da tecnologia, prodotto e mercato – commenta Massimo Colombo, docente di Finanza imprenditoriale alla School of Management del Politecnico di Milano – ma se in quel caso le percentuali sono 53,1% contro 27,6%, in Italia si sale addirittura a 81,6% contro 7,9%. Anche il fit fra investitore e startup e il valore aggiunto che il VC può apportare hanno scarsa importanza (5,3%), mentre in Europa valgono fino al 12%».
Meno proposte in Italia
Stando all’indagine, in Italia si ricevono molte meno proposte che in Europa: all’investitore italiano “tipico” ne sono state sottoposte circa 400 negli ultimi 12 mesi, contro le 500 dell’Europa. Tuttavia, gli investitori italiani ne accettano una su 43 invece che una su 51, finendo per essere meno selettivi.
Cosa si valuta?
Nel team imprenditoriale gli investitori italiani valutano soprattutto la passione e il commitment (28,9%) e l’esperienza settoriale (23,7%), cui attribuiscono un peso decisamente superiore rispetto ai colleghi europei, che apprezzano di più la competenza (28,2%) e non tralasciano l’esperienza imprenditoriale (19,3%).
Quanto al valore aggiunto del VC, anche gli italiani, come gli europei, forniscono il maggior supporto alle startup nella creazione di legami con fornitori, clienti e partner, nelle acquisizioni e nel monitoraggio come membri del CdA. Il supporto strategico e operativo, invece, è meno frequente.
Condivisione del rischio
Lo studio sottolinea inoltre come i venture capitalist italiani (46,4%) preferiscano in genere investire attraverso un sindacato, condividendo così i rischi. Nelle decisioni sugli investimenti si cerca l’unanimità una volta su due e la necessità di superare vincoli di capitale scende poi dal 22,4% europeo al 14,3% (in Italia di solito i round sono di entità inferiore)
Nello scegliere i partner del sindacato, la reputazione e i passati successi sono il fattore determinante, sia in Italia che in Europa, mentre l’esperienza settoriale conta decisamente di più in Italia (35,5% contro 22,5%). Al contrario, le precedenti collaborazioni hanno minor peso (3,2% contro 11,5%).
Infine lo studio riporta come i nostri venture capitalist preferiscano venire remunerati con bonus finanziari annuali, meno rischiosi, piuttosto che con percentuali (in genere il 20%) sul capital gain.