L’Italia del futuro sarà più vecchia, meno popolata e decisamente più fragile. Il cambiamento demografico in atto avrà conseguenze dirette su banche e compagnie assicurative, chiamate a evolvere la loro offerta per adeguarsi alle nuove esigenze della popolazione.
Ma anche a dare il loro contributo alle azioni che mirano a mitigare l’impatto sul welfare, la produttività, la spesa pubblica, lo spopolamento di alcuni territori e, inevitabilmente, il valore degli immobili.
Ci sono moltissimi dati che potrebbero raccontare l’invecchiamento della popolazione italiana. L’età media nel nostro paese è arrivata a 46,4 anni, per l’effetto combinato di due fenomeni: viviamo sempre più a lungo e facciamo sempre meno figli.
Le cause sono diverse e le conseguenze inevitabili. Se anche venissero delle politiche serie per invertire il fenomeno (al momento, non si vede granché), gli effetti positivi sul macrotrend demografico richiederebbero decenni.
Il dato più emblematico per capire la portata della trasformazione in atto è quello della natalità, precipitata del 26% tra i 2008 e il 2024. Da 576mila a 370mila nuovi nati, con un ulteriore calo di 10mila bambini tra il 2023 e lo scorso anno.
Si tratta solo dell’ultima parte di una curva che ha iniziato a scendere dal periodo del baby boom, con un milione di nuovi nati, per poi scendere sotto i 600mila negli anni Ottanta. Questo trend di lungo termine ha fatto sì che l’attuale generazione di adulti in età riproduttiva sia meno numerosa di quelle precedenti: i potenziali genitori delle Gen X e Y sono meno dei baby boomers.
Le diverse condizioni sociali ed economiche (ne parliamo tra qualche paragrafo) hanno fatto il resto, abbassando il tasso di fecondità al minimo di 1,18 figli per donna fertile. Che il costo della vita e l’incertezza sociale giochino un ruolo importante è reso evidente anche dall’impatto del Covid: nel 2019, ormai benchmark del mondo pre-pandemia, in Italia c’erano 7 nati ogni 1.000 residenti. Nel 2024, il dato era 6,3. Nello stesso anno, la popolazione italiana complessiva è scesa sotto la soglia dei 59 milioni di persone.
Il nodo del welfare
Come noto, il sistema di welfare e di assistenza pubblica viene alimentato dai lavoratori, che pagano le tasse e versano i loro contributi. Secondo il Working Group on Ageing (d’ora in poi, WGA) istituito presso la Commissione Europea, se oggi il 62% della popolazione italiana è in età lavorativa (cioè che ha tra i 20 e i 67 anni), alla fine del secolo la percentuale scenderà al 49%. In pratica, ogni lavoratore avrà una persona “a carico” delle proprie tasse e contributi, anziano o giovanissimo che sia.
Ma non serve aspettare il 2100, il problema è piuttosto urgente già ora: l’indice di vecchiaia relativo all’Italia, tra il 2000 e il 2024, è passato da 1,2 a 2. In pratica, ci sono due over65 per ogni ragazzino sotto i 15 anni. È quindi del tutto evidente che l’attuale sistema andrà ripensato, dando spazio alla previdenza complementare e appoggiandosi in misura crescente al ruolo delle imprese private.
La manodopera
Meno persone in età lavorativa significa, banalmente, meno produttività. Lo ha sottolineato Andrea Brandolini, Vice Capo del Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia, nel suo intervento alla “Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica in atto”, lo scorso 15 aprile: nei prossimi 25 anni il calo della popolazione lavorativa, per un mero “effetto invecchiamento” porterebbe a un calo del PIL pari allo 0,9% l’anno.
A parità di popolazione, occorre quindi intervenire sulla produttività. Un altro tema di cui nel nostro Paese si discute quasi a vuoto da anni. Il pensiero corre inevitabilmente all’intelligenza artificiale, la tecnologia hype del momento: la nostra manifattura, in fondo, ha già iniziato a investire in automazione. Nella AI, invece, siamo rimasti indietro rispetto ad altre geografie, così come un po’ tutta l’Europa.
La difficile via dell’immigrazione
Se anche si iniziasse, da subito, a impostare una politica di rilancio della natalità, i nuovi nati entrerebbero nel mondo del lavoro tra almeno una ventina di anni, verosimilmente anche di più. Serve, allora, lavorare su altri fronti.
Una prima risposta è l’immigrazione. Qui i numeri cambiano da fonte a fonte, ma l’idea è la medesima: importare persone in età lavorativa, per compensare la mancanza di italiani. Secondo alcune stime, sarebbe necessario un flusso di 350mila immigrati all’anno fino al 2035, per un totale di circa 13,5 milioni entro il 2050. Per capirci: il recente Decreto Flussi ha approvato 500mila ingressi nel corso di un triennio, cioè la metà rispetto alle stime.
La ragione di questa prudenza è ovvia: l’immigrazione è causa di evidenti tensioni sociali. Il Ministero dell’Interno ritiene ci siano stati 1 milione di ingressi irregolari negli ultimi 10 anni.
Questi vanno ad aggiungersi ai 5,2 milioni di cittadini stranieri legalmente residenti in Italia al 1 gennaio 2024, circa il 10,5% della popolazione totale.
I dati inattesi del referendum relativo alle norme che regolano l’acquisizione della cittadinanza italiana, appena qualche settimana fa, hanno sorpreso i promotori stessi della consultazione. Ma dà bene l’idea di che cosa stia avvenendo nella “pancia” del paese, di fronte alle situazioni di evidente disagio di alcune aree delle nostre città. E questa ostilità influenzerà anche la capacità di impostare le riforme profonde necessarie per permettere una reale integrazione degli immigrati nel tessuto economico e sociale del Paese.
Non aiuterà in questo senso mostrare i dati secondo cui l’Italia, in assenza di immigrazione, finirà per perdere circa 10 milioni di abitanti ogni 25 anni, finendo popolata da circa 30 milioni di persone entro il 2100. Perché in alcuni scenari i discendenti degli immigrati potrebbero sorpassare la popolazione “di origine autoctona” entro la fine del secolo.
Recuperare Neet e occupazione femminile
C’è poi il tema delle competenze degli immigrati. Nel 2024, ci dicono i dati INPS, gli stranieri erano il 30,1% del personale non qualificato, il 16,9% di quello attivo nelle costruzioni e il 20% in agricoltura. Nella maggioranza dei casi, svolgono occupazioni di bassa qualità e mal retribuite. In un contesto in cui la concorrenza tra paesi si gioca sulle competenze tecnologiche, per sostenere la produttività serve attirare manodopera specializzata, in grado di creare valore aggiunto per l’economia nazionale.
L’Italia, su questo fronte, fatica persino a trattenere i suoi cittadini: tra il 2012 e il 2023 abbiamo perso un milione di connazionali, in buona parte giovani laureati, che hanno scelto di emigrare all’estero per trovare delle condizioni di lavoro migliori. E anche chi rimane fatica a entrare nel mondo del lavoro o della formazione: in Italia i giovani Neet (cioè che non lavorano né studiano) sono il 19%, praticamente il doppio della media dell’Unione Europea.
Per attirare una immigrazione qualificata, serve quindi lavorare sulla attrattività non solo della qualità della vita, ma anche della retribuzione offerta in Italia. L’attuale stretta all’immigrazione negli Stati Uniti è una enorme opportunità di intercettare talenti in fuga, che altri Paesi europei stanno cercando di cogliere. Noi restiamo, invece, una fonte di competenze per gli altri membri dell’Unione.
Oltre a lavorare sui giovani, occorrerebbe migliorare l’inclusione lavorativa femminile. I dati sono impietosi: nel 2024, lavorava il 57,6% delle donne tra i 15 e i 64 anni. Parliamo di 13 punti di distacco dalla media UE. E nelle regioni del Sud si scende al 43,1%.
È ora di rendersi conto che il nostro mercato del lavoro richiede spesso di scegliere tra avere un’occupazione ed essere madre: dopo la maternità, circa il 20% delle neomamme ne fuoriesce, volontariamente o meno.
Un dato che dovrebbe fare riflettere sulla necessità di ripensare le politiche a sostegno della famiglia puntando su obiettivi concreti: la mancanza di asili nido e di servizi per la prima infanzia è un problema particolarmente rilevante in molte aree del paese. In altre, l’accesso a questi servizi è estremamente costoso. Aggiungiamoci gli orari limitati, che spesso costringono la madre a optare per un lavoro part time, e il gioco non vale la candela: si rischia di andare a lavorare solo per pagare l’asilo nido. Ed ecco che molte madri scelgono di “fare la mamma”, mettendo a repentaglio la loro carriera e condannandosi a lavoretti part time o comunque meno retribuiti rispetto al loro potenziale. Peggiorando così ulteriormente la loro futura situazione previdenziale.
Lavoro, non bonus
Per anni e anni, il calo delle nascite è stato descritto come una specie di evoluzione culturale, un cambiamento sociale frutto di un mix tra edonismo e consumismo. In realtà, l’Istat nel 2022 ha confermato che la maggior parte delle coppie continua a desiderare due figli. Il recente report “Cambiare Paese o cambiare il Paese. Dossier 2025: dai numeri alla realtà”, realizzato dalla Fondazione per la Natalità in collaborazione con ISTAT è andato a sondare i giovanissimi, tra gli 11 e i 19 anni, confermando che diventare genitori continua a restare un obiettivo nei loro piani di vita.
Il 69,4% vorrebbe un figlio da adulto e l’80% di questi ne desidera almeno due. Lo stesso report evidenzia che, una volta diventata adulta, solo una donna su tre riesce ad avere tutti i figli che vorrebbe.
E non per abbracciare chissà quale stile di vita postmoderno, ma perché si trova ad affrontare precarietà lavorativa, carenza di servizi per l’infanzia e difficoltà abitative. In altre parole: avere un figlio è economicamente poco sostenibile. Figuriamoci due.
Anche in questo caso, si riscontra la mancanza di un intervento strutturale e strategico per creare le condizioni favorevoli per conciliare famiglia e lavoro. Come ribadito anche da Andrea Brandolini nel suo già citato intervento in Commissione Parlamentare, è ormai ampiamente dimostrato che creare un ecosistema di servizi a supporto della maternità è più efficace di sussidi e trasferimenti monetari. Serve permettere alle madri di lavorare, non elargire bonus.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di luglio/agosto 2025 di AziendaBanca ed è eccezionalmente disponibile gratuitamente anche sul sito web. Se vuoi ricevere AziendaBanca, puoi abbonarti nel nostro shop.